La Klein propone che esista fin dai primi stadi di vita un processo psichico attraverso il quale aspetti del sé non sono semplicemente proiettati sulla rappresentazione psichica dell’oggetto (come nella proiezione), ma dentro l’oggetto, in modo tale da controllare l’oggetto dall’interno e giungere all’esperienza dell’oggetto come parte di sé. Nella identificazione proiettiva il soggetto proietta su qualcun altro un affetto o impulso per lui inaccettabile come se fosse realmente l’altro ad aver dato vita a tale affetto o impulso. Il soggetto non disconosce ciò che ha proiettato (a differenza della proiezione semplice), ma ne rimane pienamente consapevole, semplicemente lo interpreta erroneamente come reazione giustificabile nei confronti dell’altro.Quindi alla fine ammette il proprio affetto o impulso, ma lo crede una reazione a quegli stessi sentimenti e impulsi che ritiene presenti negli altri e misconosce il fatto di aver dato egli stesso origine al materiale proiettato.
Paradossalmente il soggetto spesso suscita negli altri gli stessi sentimenti che prima credeva, a torto, essi provassero. Diventa poi difficile chiarire cosa è successo “chi ha fatto questo a chi per primo”.
Questo processo è più ampio della semplice proiezione che comporta la negazione e la conseguente attribuzione esterna di un impulso. L’identificazione proiettiva comporta l’attribuzione di un’immagine così che tutto l’oggetto è visto in una luce distorta (e si reagisce di conseguenza).
Con il tempo, gli autori kleiniani hanno aggiunto una dimensione interattiva e comunicativa al meccanismo di identificazione proiettiva, estendendo anche agli oggetti interni (e non solo alle parti di sé) la possibilità di essere identificati proiettivamente.
Se per la Klein la proiezione è un meccanismo di difesa, mentre l’identificazione proiettiva è una fantasia inconscia che ruota attorno ad esso, studiosi come Heimann (1950), Racker (1968), Grinberg (1962) e Ogden (1979) hanno chiarito che l’identificazione proiettiva implica una componente interattiva di particolare rilievo: inconsciamente, e per mezzo di canali verbali e non verbali, il soggetto spinge l’oggetto a sentire, pensare e comportarsi in conformità con le immagini di sé o degli oggetti che ha proiettato in esso.
Questo meccanismo presenta diverse gradazioni: da quella patologica nella quale si produce una sorta di confusività tra soggetto e interlocutore, a quella più normale di interrelazione umana.
Bion mette l’identificazione proiettiva al centro del suo pensiero, non solo come modalità comunicativa tra madre e neonato ma anche come trasmissione al bambino di una struttura per “pensare i pensieri”, tramite la funzione alfa della madre che contiene le proiezioni ancora non gestibili del bambino restituendogliele elaborate. Il bambino infatti reintroietta non solo gli elementi beta trasformati e ora pensabili, ma anche la funzione di pensare della madre, sviluppa quindi la sua capacità di pensare i pensieri nell’ambito di una relazione significativa con l’Altro ricettivo e questa esperienza porta a costruire una propria sensazione di integrazione e di continuità interna che fa da base per il successivo sviluppo della propria capacità di sentire e gestire le emozioni e i pensieri.
Quando l’Altro non è in grado di svolgere questa funzione le identificazioni proiettive possono diventare massicce perchè la mente del bambino non è in grado di assimilarle, allora viene rafforzatala proiezione per evacuare i contenuti “non digeribili”. Di fronte ai pensieri e ai vissuti di frustrazione, il bambino che non ha interiorizzato la funzione alfa materna non potrà usare costruttivamente il pensiero per “pensare agli oggetti” , allora cercherà di sfuggire alla frustrazione, evitando i pensieri ed evacuandoli. Entriamo qui nella patologia, l’apparato per il pensiero non funziona adeguatamente, per cui le sensazioni e le emozioni non possono essere trasformate e digerite, restano come elementi beta, che possono essere evacuate attraverso identificazioni proiettive patologiche.
Esiste uno stretto legame tra identificazione proiettiva ed empatia, solo attraverso la capacità di provare empatia è, infatti, possibile riuscire a immedesimarsi nell’altro; la capacità empatica scaturirebbe dal corretto evolversi dell’identificazione proiettiva originaria.
E’ una questione di equilibrio tra il percepire aspetti degli stati emotivi dell’altra persona e il riuscire a conservare ben delineati confini tra sè e l’altro, questo vale nelle relazioni umane in generale ma acquista un valore fondamentale in psicoterapia dove è importantissimo che il terapeuta sappia usare la sua capacità empatica senza che sia inibita ma anche senza lasciarsi travolgere dal vissuto emotivo del paziente, e che sia in grado di maneggiare agevolmente le dinamiche del transfert- controtransfert.
Empatizzare comporta una condivisione e una partecipazione alle emozioni dell’altro, ma conservando un punto di vista osservativo, il terapeuta dovrà sia farsi coinvolgere dalle esperienze emotive del paziente sia ritrovare la propria capacità di riflettere su ciò che avviene nel processo terapeutico. Ogden spiega che affinchè riesca l’elaborazione dell’identificazione proiettiva “il terapeuta deve essere sufficientemente aperto per ricevere l’identificazione proiettiva del paziente e deve allo stesso tempo mantenere una sufficiente distanza psicologica dal processo per consentire l’efficace analisi dell’interazione terapeutica”. Quindi il termine empatia descrive adeguatamente l’esito positivo dell’attivo lavoro psicologico di contenimento dell’identificazione proiettiva.
Ma se il terapeuta dovrà farsi carico delle esperienze emotive del paziente e nello stesso tempo ritrovare la propria capacità di riflettere su ciò che avviene nel processo terapeutico, alla lunga non sarà talmente coinvolto da rimanere a sua volta vittima dei problemi del paziente?
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no, è proprio quello che non deve succedere, ci si forma per questo, l’ho spiegato meglio nell’articolo sull’empatia in senso psicoanalitico, si tratta di “ondeggiare” tra due posizioni in modo flessibile, detto in parole povere, senza restare nè fissi con l’altro, cioè dentro, troppo coinvolti, nè troppo staccati, analizzando senza sentire, stereotipo del terapeuta freddo, imperturbabile, che in pratica non entra i relazione…
spero di aver risposto, è un concetto un po’ complesso..
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Grazie per il chiarimento. Saluti.
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Ce ne fossero di psicoterapeuti in grado di leggere mantenendo la distanza… Purtroppo a oggi ho avuto esperienze davvero frustranti.
Comunque sempre molto utili e interessanti i tuoi articoli 🌹
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